L’articolo che segue è uscito sul numero corrente della rivista “Areté”, Quadrimestrale dell’Agenzia per le ONLUS (anno 3, n. 2, maggio-agosto 2010, pp. 98-105). Ringraziamo l’Editore per averci autorizzato a pubblicarlo su questo sito.
Rispetto per i sentimenti dei bambini in affidamento
La nostra legge e i suoi obiettivi
La legge 149/2001, che regolamenta l’affido e l’adozione, ha come riferimento costante il “superiore interesse del minore”. Fare “il superiore interesse del minore” è idea condivisibile da chiunque, ma soggetta ad ogni forma di interpretazione personale. Nella situazione di un minore affidato e successivamente (spesso dopo anni) dichiarato adottabile, qual è il “superiore interesse del minore”? Credo che difficilmente si possa sostenere che fa bene ad un bambino, già figlio di genitori inadeguati, essere separato dalla famiglia affidataria, dove ha vissuto per lungo tempo, se ad essa sente di appartenere. Molte ricerche in ambito psicologico dimostrano che i sostituti genitoriali non sono meno importanti dei genitori naturali, quando tra adulti e bambini si sia sviluppato un rapporto empatico profondo. Se condividiamo la considerazione dell’importanza del genitore “affettivo” non possiamo negare che il cambiamento di famiglia per un bambino è un grave danno. E subire tale danno non è di certo nel suo superiore interesse presente e futuro.
Ma ciò che è ovvio per la gente comune e che è stato regolarmente confermato da indagini psicologiche di ricercatori e psico-terapeuti negli anni è sbagliato per molti “addetti ai lavori”. Per alcuni di essi è preferibile far vivere al minore il terzo cambiamento di famiglia piuttosto che creare un passaggio dall’affidamento all’adozione. Ci si chiede perché: ciò avviene perché si vogliono tenere separati l’istituto e l’adozione, che ha lo scopo di dare per sempre una famiglia a chi ne è privo (perché orfano o abbandonato) da quello dell’affidamento, che ha lo scopo di dare un supporto temporaneo ad una famiglia in momentanea difficoltà.
Per onorare tale distinzione teorica, non si esita a calpestare la persona del bambino in un’ottica completamente adulto-centrica.
Che cos’è l’affidamento nella realtà
In realtà l’affidamento risponde all’obiettivo primario di riportare il bambino alla famiglia d’origine in meno della metà dei casi: l’affidamento è l’istituto della protezione dei bambini nell’incertezza del loro futuro.
È cosa diversa da ciò che si sarebbe voluto e va trattato per quello che è. Non si può più permettere, nel superiore interesse della persona del minore, che un bambino cresca nell’incertezza perenne del suo futuro. Dopo i 2 anni dall’inizio dell’affidamento si dovrebbe, per legge, decidere se dichiararlo adottabile oppure farlo rientrare nella famiglia “risanata”, ma i due anni sono rinnovabili. Talora bisogna rinnovare l’affidamento, ma fino a quando?
Se l’incertezza permane e la famiglia d’origine è impossibilitata a prendersi cura del minore, ma per certi aspetti presente nella mente del bambino, bisogna dargli una famiglia adottiva, che abbia i requisiti per educarlo con autorevolezza ed insieme gli permetta la continuità degli affetti con coloro che l’hanno messo al mondo. Una famiglia che accolga in un certo senso sia il minore che la sua stessa madre e che sappia mantenere un buon rapporto con entrambi. Una famiglia che abbia alcune caratteristiche di quella adottiva (dia a tutti, bambini e grandi, la sicurezza della stabilità e del diritto) e alcune caratteristiche di quella affidataria (mantenimento dei rapporti con la famiglia d’origine). Non è impossibile: nella prassi già situazioni simili esistono da tempo, dove i magistrati minorili hanno avuto il coraggio di spingersi in un terreno che la nostra legge ha previsto, ma che è sempre un po’ anomalo nei confronti di un’adozione classica. In essa, infatti, il bambino perde ogni contatto con la famiglia di provenienza, che non sa e non deve sapere dove egli viva e con chi sia.
Affidamento e forme di adozione aperta e miste
Oggi, nella maggior parte delle situazioni inerenti bambini figli di famiglie incapaci di crescerli, ma non bambini orfani, si preferisce nella realtà un affidamento, che si prolunga fino alla maggiore età, ad un’adozione come quella sopra descritta. Si lasciano i bambini/ragazzi in affidamento per periodi talmente lunghi da portarli all’età in cui si viene dichiarati maggiorenni. Si tratta degli affidamenti definiti “sine die”, in cui i minori in teoria non hanno mai il diritto di chiamare “mamma” e “papa” le persone che si prendono cura di loro, pur vedendo i genitori naturali una volta all’anno o addirittura mai. I bambini in questa situazione vivono sempre “tra color che sono sospesi” e l’Associazione Italiana Amici dei Bambini (AIBI) ha coniato per loro la definizione di “bambini del limbo”. Le conseguenze pratiche di questa incertezza di vita non sono certo da sottovalutarsi: affidato e affidatari non sono mai riconosciuti dalla società come figlio/a e genitori e questo indebolisce il ruolo degli adulti e impedisce a tutti di programmare la vita liberamente.
Il periodo dell’adolescenza
L’incertezza dei ruoli, sia degli affidatari che degli affidati, rende drammatico soprattutto il periodo dell’adolescenza. I ragazzi, raggiunti i 14/15 anni, se ribelli, come moltissimi figli naturali, potrebbero essere rifiutati da coloro che li hanno cresciuti e finire in qualche comunità, con conseguenze psicologiche a materiali gravissime per grandi e piccoli, o addirittura potrebbero essere i ragazzini a chiedere agli assistenti sociali di essere tolti dalla famiglia affidataria per andare in comunità, dove si sentono meno controllati. Mi si consenta il ricordo personale di un padre affidatario che non capiva come i Servizi avessero potuto far andare in comunità una ragazzina da lui seguita per tanti anni, solo perché la stessa voleva vestirsi e truccarsi in modo vistoso e la famiglia affidataria glielo impediva, come forse glielo avrebbe impedito una famiglia naturale. I casi particolari si prestano a mille riflessioni e chissà che cosa celava quel classico conflitto adolescenziale, ma in casi simili è enorme il senso di sconfitta e di autosvalutazione per tutti i membri della famiglia affidataria, che sente di aver fallito il suo compito. Ancor più grave è il riemergere di vissuti abbandonici per i giovani affidati, soprattutto se vengono allontanati dal nucleo familiare contro la loro stessa reale volontà: essi vengono privati così, anche materialmente, dell’appoggio fondamentale della famiglia in un momento della vita molto delicato, quale quello del raggiungimento dell’autonomia personale e lavorativa, così difficile in Italia.
La necessità di fare delle scelte
Non scegliere o scegliere in ritardo per il futuro di questi ragazzi, posti un tempo in affidamento e poi mai fatti rientrare nella famiglia d’origine o mai resi adottabili, significa decidere la loro vulnerabilità e la vulnerabilità di chi li ha generosamente accolti. Ci sono persone disposte ad adottare i bambini, che hanno accolto in affidamento, dopo due anni dalla loro accoglienza, quando sono ancora piccoli e magari non dopo quattro, a causa dello scatenarsi della crisi adolescenziale. Il tempo non è una variabile di poco conto in questi casi e il sapere che si starà insieme “per sempre” favorisce i rapporti di attaccamento in maniera evidente.
Comunque, anche nell’incertezza del futuro, gli affetti spesso maturano egualmente e ci sono ragazzi che non vorrebbero mai lasciare gli affidatari e affidatari che aspettano proprio che i minori raggiungano la maggior età per adottarli.
Adozione inclusiva dei vecchi affetti o affidamento sine die?
Un’adozione che permettesse anche a “orfani di genitori vivi e vegeti”, ma incapaci di svolgere appieno il loro ruolo, di avere una famiglia stabile (pur sapendo da dove si proviene e magari mantenendo anche – se opportuno – un legame con qualche parente), eliminerebbe queste situazioni: i ragazzi adottati saprebbero di appartenere alla famiglia che li cresce e li educa e la famiglia adottiva avrebbe nei loro confronti gli stessi diritti e doveri di quella naturale. L’affidamento “sine die” invece offre il fianco a perenni incertezze, a difficoltà affettive legate all’impossibilità ufficiale dell’attaccamento reciproco, all’impossibilità di approdare ad una situazione in cui si è davvero, e per l’intera società, genitori e figli. Esso in sostanza non da mai, proprio a chi ne avrebbe particolarmente bisogno, una famiglia stabile. Tale tipo di affidamento è diffusissimo, circa la metà degli affidamenti nel nostro Paese finiscono per essere “sine die“. C’è chi li accetta di buon grado, pur di non far passare i bambini e i ragazzi dall’affidamento all’adozione all’interno della stessa famiglia con il vantaggio di non far cambiare vita a ragazzi già in affidamento da anni.
Snaturare l’affidamento e l’adozione
Gli operatori che permettono simili affidamenti lunghissimi e incerti fanno queste scelte, temendo che il passaggio da un istituto all’altro snaturi l’affidamento.
Infatti, poiché l’affidamento nasce per far tornare i bambini nella famiglia che ha dato loro la vita, non prevede che chi li accoglie temporaneamente la sostituisca a tutti gli effetti. Per diventare affidatari sono sufficienti brave persone, forti ed equilibrate oltre che preparate, ma non necessariamente esse devono essere sposate e giovani, come per l’adozione. I requisiti per poter adottare e prendere in affidamento sono diversi e sono diversi i percorsi attraverso cui si diventa genitori adottivi o genitori affidatari. È diverso l’orientamento mentale a cui si rivolgono i primi ed i secondi: i primi sono volti a creare il massimo attaccamento tra sé e i bambini, i secondi a lasciare che i genitori naturali siano il vero oggetto d’amore per i bambini, dove questo è possibile. Permettere il passaggio da un istituto all’altro creerebbe molta confusione, anche mentale, e favorirebbe coloro che, privi dei requisiti per adottare, desiderano adottare lo stesso, in barba alla legge attuale. Non entro qui nell’annosa polemica circa il diritto per i single di adottare, mi limito a sottolineare i fondati motivi di chi non vuole favorire il passaggio dall’affidamento all’adozione.
Ma posti in evidenza i problemi, si devono individuare le soluzioni, a meno che non si voglia scegliere di riperpetuare le situazioni in cui un minore viene costretto a cambiare almeno tre famiglie nella vita o, peggio, viene posto per anni in casa-famiglia, per non sottoporlo a distacchi da persone a cui si sia affezionato. È questa la più sciocca delle soluzioni, purtroppo spesso applicata anche nella prima infanzia, quando ci si forma e si pongono le basi per lo sviluppo futuro della personalità umana, proprio a partire dai rapporti d’affetto con la madre o il sostituto materno. Oggi, secondo le ultime ricerche (2007) del Centro studi dell’Istituto degl’Innocenti, su 100 bambini tra gli 0 e i 2 anni, ce ne sono 39,8 in affidamento familiare e 60,2 nei servizi residenziali. Il danno che viene procurato così a molti bambini non è quantificabile ma è di certo molto rilevante.
Possibili soluzioni ai problemi sollevati
Le soluzioni ai problemi qui sollevati, e ad altri a questi correlati, sono state indicate da molti Parlamentari nel tempo. Le soluzioni ci sono: basterebbe che fosse creato un nucleo di famiglie e singole persone (anche i single nei casi particolari possono adottare) capaci di percorrere, in tempi diversi, sia il percorso della formazione per diventare famiglie adottive sia quello per diventare famiglie affidatarie. Verrebbe così superata la questione dei requisiti diversi e della paura dell’aggiramento della legge. Queste persone, disposte ad affrontare l’incertezza del futuro, riconosciute da tribunali e servizi, potrebbero essere i futuri genitori a cui rivolgersi nei tanti casi incerti.
Ci sono bambini che si buttano nell’acqua, pur non sapendo nuotare, se ad accoglierli ci sono le braccia di persone di cui si fidano. Il sistema di protezione dei minori ha il dovere di predisporre “braccia” di cui ci si possa fidare in ogni circostanza o almeno di non toglierle quando già ci sono.
Possibilità offerte dalla legge attuale
Tutto ciò si può fare con la legge attuale. Non c’è scritto nella legge 149/2001 che tra i due istituti non possa esserci alcuna commistione. Non c’è scritto che i genitori affidatari debbano essere esclusi dalla categoria di coloro che possono adottare il bambino. Anzi, la legge prevede che “i minori possano essere adottati anche in assenza dei requisiti previsti per poter adottare di cui al comma I dell’art. 7, lett. a) della legge 184/1983 come modificata nella legge 149/2001 da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, quando il minore sia orfano di padre e di madre”. La giurisprudenza ha ormai comparato il bambino abbandonato a quello orfano e, se non è “rapporto stabile e duraturo” quello che s’instaura tra un bambino che rimane in una famiglia per molti mesi e per anni, quando sussiste un rapporto con tali caratteristiche? La domanda è ovviamente retorica: tale rapporto inevitabilmente si costituisce nel tempo e nell’intimità della convivenza, quindi gli affidatari potrebbero, a legislazione invariata, adottare all’interno della propria famiglia il bambino utilizzando questo articolo di legge.
L’adozione nei casi particolari
Ma questa adozione particolare (messa in atto attraverso l’art. 44 della legge 184/1983) non è identica a quella semplice per vari motivi. Essa infatti permette al bambino adottato di mantenere il proprio cognome accanto a quello di chi adotta e di mantenere il contatto con la famiglia d’origine. Essa prefigura quell’adozione conciliante della vita e degli affetti di cui si parlava sopra.
Questa forma di adozione, come abbiamo accennato, da elasticità alla legge e nasce proprio per sanare situazioni di fatto che si potrebbero modificare solo con grave pregiudizio per il minore, staccato da chi è stato per lui riferimento fondamentale. Essa va bene se il rapporto con la famiglia d’origine è opportuno o auspicabile, perché la stessa è in qualche modo presente o almeno non è persecutoria, non va bene se invece lo è. Il rischio che la famiglia d’origine possa tormentare quella adottiva esiste, come esiste il pericolo che possa tormentare il figlio se questi è facilmente reperibile.
Anche questo problema non è insolubile. La famiglia affidataria potrebbe, per amore del bambino che cresce da anni, trasferirsi o venire protetta. Di certo per un bambino è meglio stare con chi ritiene i propri genitori che cambiarli per un pericolo da cui può essere protetto.
Prevedere i possibili sviluppi futuri
Fermo restando tutto ciò che abbiamo appena affermato, si deve pensare prima a cosa fare nel futuro quando un bambino viene posto in affidamento. Forse la sua situazione è prevedibile con buoni margini di probabilità, forse l’incertezza è totale. In ogni caso si deve predisporre la “rete di salvataggio”, di cui sopra, per il bambino per ogni evenienza, per proteggere i suoi legami affettivi. La rete di salvataggio prevede che si scelga nel tempo opportuno se il bambino deve andare in affidamento o in adozione a rischio giuridico, cioè presso una famiglia che un giorno lo possa eventualmente adottare (meglio se una famiglia con i requisiti per poter fare domanda d’adozione legittimante) oppure se questo non è necessario. Tutto ciò viene già pensato dai servizi e dai tribunali più attenti, ma inevitabilmente, poiché la vita supera la fantasia, le situazioni incerte alla fine dell’affido si trovano sempre ed è per questo che va ribadito che i legami affettivi di un bambino vanno tutelati, soprattutto se questi è piccolo, se i legami che ha costituito con la famiglia affidataria sono forti, se egli non può capire che non viene abbandonato di nuovo. Troppe volte accade che un bambino cresciuto dalla nascita in una famiglia che “sente” sua sia costretto a 3-4 anni a cambiarla, subendo traumi dolorosissimi, solo a causa dei contorti ragionamenti degli adulti.
Necessità della petizione presentata al Parlamento il 13 maggio 2010
Per questo è necessario che si precisi nella legge attuale che, qualora un bambino già posto in affidamento venga dichiarato adottabile, a causa del mancato recupero della famiglia d’origine, vanno protetti i rapporti affettivi che egli nel frattempo abbia costituito, come chiede la petizione che è stata presentata al Presidente della Camera il giorno 13 maggio 2010 dall’Associazione “La gabbianella e altri animali” e che ha raccolto in poco tempo 6.000 firme.
Ciò significa che in caso di dichiarazione di adottabilità il bambino dovrebbe rimanere in primis nella famiglia in cui già si trova. In caso invece di ritorno nella famiglia d’origine o di adozione in un’altra famiglia (la possibilità rimane aperta), il minore dovrebbe poter mantenere un rapporto amichevole con le persone che sono state per lui preziose. Gli adulti che si vogliono bene si incontrano, si telefonano, si scrivono: perché mai i bambini non possono farlo? I bambini non sono proprietà privata di nessuno, nemmeno dei loro genitori, e in quanto persone hanno diritto di vivere gli affetti che sentono profondamente.
Carla Forcolin