img_logo_forum-150x150Il seguente documento è il nostro contributo al forum on line per la preparazione del convegno di studi “Chiamati ad accogliere” del 17 maggio 2013, organizzato da Progetto Famiglia – ONLUS.

Proteggere i legami affettivi dei bambini che non crescono nella famiglia d’origine significa insieme diventare meno adulto-centrici e rilanciare l’istituto dell’affidamento

PREMESSA

Avete mai visto i bambini di pochi mesi in un orfanotrofio del “mondo povero”? Stanno nelle culle, silenziosi, e si rianimano solo quando qualcuno, per nutrirli o cambiarli, li avvicina. Davanti a un sorriso, a una voce umana, i loro occhi si accendono, cambiano luce, ma quando la persona che li ha salutati, anche senza toccarli, se ne va, quando non risponde più ai loro vocalizzi, ridiventano opachi. Quanto soffrono quei bambini? Io credo in maniera indicibile. Non sanno se qualcuno verrà a dar loro da mangiare quando hanno fame, se potranno sopravvivere. Vivono nella paura di morire e in un’ansia di separazione costante. Erano uniti a un’altra vita, in un ventre caldo, e ne sono stati espulsi. La loro fonte di vita non c’è più. Sono rimasti senza la mamma, di cui hanno bisogno per vivere.

ADOZIONE E AFFIDAMENTO

Ai bambini senza mamma la società degli adulti, se e quando può, offre una madre sostitutiva, che svolge le sue stesse funzioni. Di solito, una mamma adottiva. Ma non sempre si può accedere subito all’adozione: nel mondo occidentale in particolare, prima di assegnare una madre adottiva a un bimbo, si vuole essere sicuri che la madre naturale sia morta o non lo voglia proprio più, perché spesso il bambino, prima di essere dichiarato adottabile, l’ha conosciuta e ha fatto in tempo ad attaccarsi a lei. Nell’attesa, un’attesa che può durare anni, specialmente se la madre è affetta da forme di incapacità genitoriale o è tossicodipendente o ha una malattia mentale, si dà al bambino una mamma affidataria o, meglio, una famiglia affidataria. La famiglia adottiva sa di essere divenuta, per decisione delle istituzioni e per sempre, la famiglia del bambino accolto. Quella affidataria sa invece di svolgere un ruolo di sostituto genitoriale a tempo.
E’ impossibile spiegare a un bambino piccolo questa distinzione: egli non sa nulla di istituzioni. Però “sente” quello che c’è nell’anima di chi lo accudisce, avverte se finalmente qualcuno, famiglia adottiva o affidataria che sia, lo accoglie con sé, ascolta i suoi bisogni, gli dà risposte adeguate. Infatti il bambino abbandonato, anche dopo essere stato accolto in una nuova famiglia, è incerto, spaventato, mette alla prova le persone che si occupano di lui, crede di essere privo di valore (perché questo è il messaggio che l’abbandono gli ha trasmesso), e chi lo accoglie deve fargli sentire che un simile abbandono non ci sarà mai più. Ma se i genitori adottivi possono trasmettere un simile messaggio, quelli affidatari non possono.

RIPIOMBARE NELLA DISPERAZIONE

Al bambino posto piccolissimo in affidamento vengono trasmessi due messaggi contrapposti: uno verbale e logico (tu non sei nostro figlio, sei solo una persona cara, la tua famiglia è un’altra), uno fisico e analogico (ti teniamo accanto, sei la persona più preziosa di questa casa, qui tutti ti amano). Non è strano che lui privilegi quello analogico, spinto dal suo bisogno e dal suo desiderio di integrazione nella famiglia. Un bimbetto in tale situazione attaccò una sua fotografia a quella della famiglia prima del suo arrivo. E molti piccoli in affidamento si presentano con il cognome della famiglia affidataria ai compagni di scuola materna, specialmente se dal loro aspetto si capisce che sono stranieri
Un bambino cresciuto in affidamento in una famiglia, e dalla stessa separato – per rientrare nella talora semi-sconosciuta famiglia d’origine o essere posto in adozione – si sente abbandonato di nuovo e ripiomba nella tristezza sconfinata di chi è separato dall’affetto della madre, del padre, dei fratelli. Se poi la scomparsa di quei legami riparatori si accompagna al venir meno di altre persone care, come gli amici e i maestri, e di luoghi noti (anche la “patria” è madre), la disperazione e il disorientamento sono profondissimi. Solo nuovi legami di altissima qualità, duraturi nel tempo, possono rassicurare chi subisce perdite ripetute di questo tipo; talora, però, il ripetersi di tali perdite rende le persone incapaci di abbandono e di fiducia per sempre, da piccole e da grandi.

INTEGRARE LE ESPERIENZE POSITIVE

Che fare? Rinunciare all’istituto dell’affidamento per non sommare le perdite? Di certo non è questa la soluzione al problema di chi è abbandonato e non è sicuro se andrà in adozione. Meglio essere stati amati a tempo di non esserlo stati affatto, per i primi anni di vita, i più preziosi; meglio aver assaporato l’amore, che non sapere nemmeno che cosa sia la dolcezza. Ma infinitamente meglio prevenire eventuali passaggi da una famiglia all’altra, attuando forme di adozione aperta, o adozioni a rischio giuridico, o comunque facendo in modo che tutti i rapporti positivi di un bambino prima o poi si integrino invece che disseminare la sua vita di lutti e separazioni. Essere separati da ciò che ci è caro è dolorosissimo e la separazione definitiva è una forma di morte, la morte di un rapporto. Se poi quel rapporto è con la madre o il suo sostituto, che della madre non è affatto meno prezioso, esso sorregge la vita interiore del bambino e la separazione forzata è un lutto serissimo. Negli affidamenti ben riusciti di neonati, che si prolungano per anni, succede proprio questo: al momento della separazione dalla famiglia affidataria viene tolto al bambino ciò che per lui più è vitale, e si capisce benissimo come mai gli occhi dei bambini separati d’autorità dai sostituti genitoriali siano simili agli occhi dei neonati orfani. Ma nessuno di coloro che hanno voluto mantenere leggi che permettono questi lutti e che le applicano alla lettera, convinti di fare il bene dei “fanciulli”, va ad osservare quei bambini dopo che hanno cambiato famiglia.

LA NEGAZIONE DEI SENTIMENTI

I bambini (e gli adulti) che abbiano subìto la morte reale di un genitore (o di un figlio) vanno rassicurati circa il fatto che il loro dolore è più che mai condivisibile e lecito, e che loro non potevano fare nulla per fermare il decorso di una malattia mortale o il verificarsi di una disgrazia. Vanno cioè sollevati da uno schiacciante senso di colpa, che negli esseri umani si accompagna sempre alla disgrazia. Così andrebbero trattati anche i bambini che hanno subito un distacco definitivo, voluto dalle istituzioni, da una buona famiglia affidataria, scelta in cuor loro come la propria. A questi bambini andrebbe spiegato che non sono stati rifiutati perché indegni di amore.
Ma questa rassicurazione non arriva quasi mai. Poiché l’affidamento non è l’adozione, le istituzioni che non hanno decretato la liceità dell’affetto tra affidato e affidatari negano i sentimenti dell’uno e degli altri con il silenzio. Non si ammette mai che ci possano essere rapporti tenerissimi tra affidatari e affidati; se si creano, si ritiene che gli adulti abbiano sbagliato in qualcosa. Ma che cosa dovrebbero fare, questi adulti? Abbracciare il bambino mettendo fra sé e lui una barriera? Respingere il bambino che ha incubi notturni, quando arriva al loro letto per cercare consolazione? Lavarlo con i guanti di gomma? Con i piccoli non si può agire diversamente da come agirebbe qualsiasi genitore biologico o adottivo. A poco serve che non si insegni al bambino a chiamare mamma e papà gli affidatari, se si adempie ai ruoli materno e paterno.

QUANDO GLI AFFIDATARI ABBANDONANO GLI ADOLESCENTI

Ma accanto ai bambini piccoli privati degli adulti di riferimento, cioè di persone capaci di amarli e di assumersene la responsabilità ( di cui ho già raccontato molti casi terribili nei miei libri) ci sono casi come quello di ALICE.

Alice posta in affidamento intra-familiare a un anno e mezzo presso gli zii, è giunta al compimento dei 18 anni sempre in affido. A lungo si è sentita parte della famiglia affidataria, eppure è stata legalmente sbattuta fuori di casa senza un lavoro e un alloggio precedentemente preparati. La sua storia è raccontata sulla rivista “Minori/Giustizia”n 1/2011. Come Alice devono essere considerati tutti gli adolescenti, maschi e femmine, che non sono mai stati posti in adozione o che gli affidatari non hanno voluto adottare una volta giunti all’età dell’adolescenza. Se non si fossero aspettati troppi anni prima di porre questi bambini in adozione, se essi fossero stati offerti agli affidatari in adozione prima che l’età li rendesse più ribelli e “difficili”, come capita a tutti durante l’adolescenza, questo non sarebbe successo.

Pensare che il rapporto genitoriale è per sempre o che è a tempo, che cioè si può recidere se agli adulti o anche ai ragazzi non piace più, fa un’enorme differenza.  L’affidamento è un istituto “ a tempo” e tale dovrebbe essere mantenuto. In tutti i casi in cui l’adozione non è possibile e l’affidamento si prefigura a lungo termine ci vorrebbero famiglie accoglienti disponibili in partenza sia all’affido che all’adozione. Questo comprensibilmente non piace agli operatori, che temono da parte delle famiglie affidatarie atteggiamenti appropriativi anche di ragazzi che avrebbero il diritto di tornare nella famiglia d’origine. Bisogna valutare situazione per situazione quale sia il male e il pericolo minore nella prospettiva che il ragazzo/a non più piccolissimo si trovi privato anche dei sostituti genitoriali. Non si può ridurre la vita di una persona ad una serie di segmenti separati, ad una catena di interventi, sui cui anelli i diversi operatori fanno delle scelte a seconda delle competenze territoriali,  dei congedi, ecc. Un minore privo della famiglia d’origine che nell’affidamento ha trovato degli adulti capaci di amarlo, ha avuto fortuna nella sua disgrazia originaria e quella fortuna non deve essere sottovalutata dagli operatori. Qualora, dopo due anni di affidamento, le prospettive di ritorno nella famiglia d’origine divenissero più precarie, il legame con la famiglia affidataria dovrebbe cambiare natura. Attendere troppo significa rischiare di far rifiutare l’affidato/a da adolescente.  Se questo appare una via alternativa all’adozione, poco rispettosa degli aspiranti genitori adottivi, si possono trovare dei rimedi al problema (non è questa la sede per cercarli), ma la non parcellizzazione della vita delle persone rimane un obbligo morale ineludibile da parte di chi se ne prende cura

SEPARAZIONI  INEVITABILI : UN DOLORE CHE CI RIGUARDA

Inoltre è giunta l’ora che, se e quando le separazioni sono inevitabili, qualcuno – nei servizi, nei tribunali e nelle associazioni di volontariato – si ponga il problema di curare la sofferenza inferta a grandi e piccoli con l’interruzione forzata del rapporto. E il dolore si cura divenendone consapevoli e condividendolo. Si cura liberandolo da pesanti sensi di colpa e inadeguatezza, senza minimizzarlo. Dobbiamo pensare che alcuni bambini sono stati costretti a cambiare relazioni primarie e secondarie, ambienti e abitudini, talora persino la lingua madre. E che certi lutti vengono percepiti già in anticipo dai bambini, che colgono l’imminente separazione prima ancora che venga loro comunicata, attraverso l’intuizione dei sentimenti dei grandi.

I bambini non si vergognano di esprimere i propri sentimenti a chi li ha sempre capiti. E si preoccupano per sé e anche per il vuoto che lasceranno in chi li ama.
Chi è stato separato dalle persone con cui viveva e a cui voleva bene, ha bisogno almeno di qualche telefonata, di qualche incontro con chi è rimasto nel suo cuore. Ma forme di rapporto tra le famiglie che abbiano successivamente accolto un bambino non sono previste per legge, e sono poco attuate nei fatti. Anzi, sono spesso viste come un ostacolo all’attaccamento fra il bambino e la famiglia che lo ha accolto per ultima, specialmente se si tratta di una famiglia adottiva. Così i piccoli sono lasciati soli, con la fantasia di essere stati ancora una volta abbandonati, con i loro sensi di inadeguatezza e di colpa, e gli ex-affidatari rimangono a chiedersi se abbiano omesso di fare qualcosa per proteggere i bambini.

LA PROSPETTIVA CHE PROPONIAMO

La separazione obbligatoria, senza il diritto di frequentare chi si è cresciuto, non favorisce l’affidamento e addirittura porta la gente ad identificarlo con la sua triste ed aspra conclusione, anche se ci sono molti affidamenti che si concludono bene, con il rientro a casa dei bambini che sono stati per un breve periodo in una famiglia “amica”, che tale rimane.
Affidamento e separazione forzata dalle persone care a molti appaiono sinonimi: non dimentichiamo che spesso è dolorosissimo anche il distacco iniziale del bambino dalla famiglia d’origine e soprattutto dalla mamma, perfino quando la stessa lo maltratta. Per evitare nell’immaginario comune tale sovrapposizione (affidamento=distacco), servizi e tribunali si devono porre il problema di evitare di costellare la vita dei bambini più sfortunati con rapporti affettivi interrotti, sia attualmente, a legislazione invariata, sia nell’ipotesi di auspicabilissime riforme mirate, sia di eventuali circolari applicative della legge 149/01.

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