Pubblichiamo un articolo di Carla Forcolin sulle condizioni del rapporto Carcere femminile-associazione “La gabbianella e altri animali”. L’Associazione sta organizzando per il 12/10 un convegno sulla necessità di lavorare in rete per la tutela dei bambini che crescono nell’ICAM. Lo stato delle cose che vengono qui descritte è alla base del convegno.
l bambini che crescono nel carcere femminile di Venezia
Nelle carceri femminili del nostro e di molti altri paesi qualche volta le madri recluse devono portare con sé i figli, per non lasciarli in stato di abbandono o perché devono semplicemente allattarli e non privarli della necessaria presenza materna nella prima parte della vita. Da noi il rapporto madri-figli giunge al punto di permettere ai bambini di stare con le madri fino a sei anni. Fino al 2011 si arrivava a tre anni, poi, con la legge n. 62, sono stati introdotti gli istituti a custodia attenuata per madri (ICAM) e, visto che gli ambienti dove i bambini sarebbero stati ospitati erano nuovi, si è pensato che i bimbi vi sarebbero stati bene. Ma il carcere “di lusso” rimane un carcere: e se non si organizza un modo per permettere ai bambini di uscirne saranno sempre dei piccoli reclusi, privati dei parenti più vicini (il padre ed i fratelli ad esempio), della libertà di giocare in spazi aperti adatti ai bambini, e perfino di andare all’asilo nido e alla scuola materna.
Gli ICAM in Italia esistono a Torino, Milano, Venezia, Avellino (Lauro) e Cagliari (a Sernobì, vuoto), Roma. Gli Icam dovrebbero essere superati da case-famiglia protette, secondo tante associazioni, ma, secondo “La gabbianella”, finché le madri si troveranno in stato di custodia, i bambini non saranno di fatto liberi essi stessi, dovunque si trovino, a meno che non ci sia qualcuno disposto ad accompagnarli all’asilo nido, alla scuola dell’infanzia e in tutti quei luoghi dove i bambini solitamente trascorrono la loro prima infanzia. Naturalmente previa accordi con la madre o stabilendo che le madri possono accompagnarceli esse stesse, ma qui si apre una serie complessa di valutazioni sulla pericolosità delle madri e sulla possibilità che fuggano e le regole devono essere stabilite detenuta per detenuta.
I bambini invece non sono pericolosi e non fuggono, se non con le modalità innocenti e riguardanti tutti i bimbi, che tutti conosciamo.
A Venezia, da 15 anni, e in modo via via più organizzato, ampio e complesso, l’associazione “La gabbianella e altri animali” oltre ad occuparsi di affidamento, si è occupata di accompagnare i bimbi dell’ICAM alla scuola dell’infanzia, dai medici specialisti quando serviva (e serve sempre), in spiaggia d’estate (tre giornate intere su 7), a fare uscite ed escursioni varie nei fine settimana, in piscina, ecc. A documentare questa attività in modo chiaro c’è il libro “Mamme dentro”, F. Angeli ed. e una volta fu pubblicato in merito, su “Minori/Giustizia”, un articolo dal titolo “Un ponte tra il dentro e il fuori”. Come si può capire dal libro, andava tutto bene e la Direzione del Carcere era ben felice che ci fossimo finché la nostra attività non finì per scontrarsi con alcuni orientamenti della Direzione stessa. L’oggetto del contendere agli inizi era semplice, ma estremamente significativo: una madre sinti non voleva che accompagnassimo la figlia di 5 anni alla scuola materna, mentre già vi ci portavamo il fratellino più piccolo. Alla piccola la scuola doveva essere negata, ma visto che la bambina era troppo vivace e disturbava in continuazione, ci veniva chiesto di portarla a spasso invece che a scuola. Agli operatori volontari della Gabbianella apparve chiaro che la madre stava già mettendo delle premesse discriminatorie circa una diversa educazione tra il maschietto e la femminuccia e che non doveva essere ascoltata. Ma la Direzione del Carcere ci chiese di accontentarla e noi ci rifiutammo, stupiti perfino da simile comportamento che sosteneva una detenuta, in evidente inadempienza dei diritti della figlia. Per non contrapporsi ai desideri delle madri, che talora trattavano i figli senza rispetto per i loro bisogni infantili, la Direzione cominciò a sostenere che le madri hanno la responsabilità genitoriale sui figli, assieme ai padri. E questa linea è quella tenuta anche oggi.
Poiché il sistema di tutela dei minori da sempre cerca di proteggere i bambini senza toglierli, se non in casi estremi dai loro genitori, anche in questi casi esso avrebbe dovuto essere messo in moto, con intelligenza, in tutte le sue articolazioni.
E’ quello che ha cercato di fare la Garante Regionale dei Diritti dei bambini e dei detenuti della Regione Veneto, nel 2015, a conclusione di un lungo periodo di incontri, chiesto inizialmente dalla Gabbianella, a partire però da un altro problema, vitale per madri e figli: quello del permesso di soggiorno dopo il carcere, La Garante regionale di allora, Aurea Dissegna, in un documento molto articolato e complesso, ma chiaro, che comprendeva le indicazioni date dal Tribunale dei Minorenni, dalla Procura della Repubblica per i Minori, dalla Questura di Venezia, dai Servizi Sociali del Comune di Venezia, dalla Direzione dell’Uepe, dalla Direzione del Carcere Femminile, dal Pediatra del carcere in servizio a quel tempo e dall’Associazione “La gabbianella”, previde e scrisse chi doveva eseguire determinate mansioni nelle varie fasi della carcerazione e della post carcerazione di madri e figli. Lo scopo era quello di seguire e tutelare dei bambini fragili e a rischio di imitare i comportamenti moralmente e socialmente inaccettabili dei genitori. Grazie al lavoro difficile e importante della Garante Dissegna, venne steso e firmato nell’aprile del 2015, presso il Tribunale dei Minorenni, un Protocollo d’Intesa tra tutte le istituzioni già citate (compresa la Conferenza dei Sindaci), ma … quel protocollo non fu mai attuato.
La dott. Dissegna stava finendo il suo mandato e così altri direttori. Per un po’ nel Carcere non successe niente di significativo che spingesse ad applicare con urgenza gli accordi. In quel tempo il carcere era guidato da una Direttrice concreta, pragmatica, capace di assumere decisioni in fretta, che però dovette lasciare per un lungo periodo il suo lavoro. Poi avvenne un fatto di “ordinaria prevaricazione” dei diritti di un bambino particolarmente fragile, che aveva sempre vissuto male la carcerazione della madre.
Era cambiata la Direttrice dell’Istituto di Pena: la dirigente era nella stesso tempo direttrice del carcere maschile e dell’UIEPE; per il femminile sostituiva la collega ammalata. Essa non aveva partecipato all’elaborazione e alla stesura di un documento che però avrebbe dovuto far rispettare. Quando l’Associazione le chiese, con una lunga lettera-documento di intervenire per far applicare accordi mai applicati (cosa riscontrata dalla Garante Regionale attuale nell’unica riunione di verifica dell’attuazione del Protocollo) lei non rispose, con quello che parve un evidente silenzio-dissenso. Naturalmente non poteva rispondere in modo diverso l’UIEPE, guidato dalla stessa dirigente e nei fatti coinvolto come l’Istituto di Pena, se non di più, nell’attuazione degli accordi.
Per sollecitare l’intervento del Tribunale dei Minorenni, della Procura della Repubblica e del Comune nell’attuazione di accordi stesi tre anni prima, la “Gabbianella” inviò a tutte le istituzioni coinvolte la sua disdetta da un accordo ignorato e quindi di fatto inesistente. Era un evidente atto provocatorio: se la provocazione fosse stata accolta per quello che era, cioè un richiamo disperato all’attuazione dei diritti dei bambini, figli di donne recluse, qualche istituzione avrebbe dovuto indire un incontro con tutti i dirigenti del Tavolo Interistituzionale e l’Associazione e capire perché gli accordi non venivano attuati. L’incontro invece fu organizzato dall’Istituto di Pena, escludendone la Gabbianella, visto che aveva dato la disdetta. Lì fu detto che si sarebbero dovuti fare dei progetti individualizzati bambino per bambino, ma l’assurdo è che i progetti individualizzati hanno bisogno di qualcuno che dia loro la possibilità di essere attuati e l’esclusione dei volontari della Gabbianella dai progetti significava fare una semplice azione di facciata, che mascherava la volontà di escludere il volontariato dalle attività del carcere, senza avere soluzioni alternative fatte da personale pagato dal Ministero di Giustizia o dagli Enti Locali. La privazione delle uscite per i bambini, la privazione della scuola per l’infanzia sembravano non toccare la Direzione, convinta che il Comune avrebbe dovuto risolvere il problema come si fa a Milano, pagando alcuni operatori. Ma il Comune di Milano è più ricco ed ha una diversa tradizione in merito. Quello di Venezia ha dapprima spinto la Gabbianella ad accompagnare i bambini finanziandone gli accompagnamenti, poi dal 2010, non ha più dato fondi stanziati con questa finalità. Dopo l’incontro interistituzionale dal quale l’Associazione è stata esclusa, il Comune le ha offerto un finanziamento di 5.000 €, ma ormai i problemi principali non sono più di carattere economico. Chi si è fatto carico dei bimbi per 15 anni, cioè “La gabbianella”, desidera proteggerli, non solo servire supinamente gli interessi del Carcere, che vuole poter dimostrare di mandare i bambini a scuola, ma non vuole che attorno a loro ci sia una rete significativa di tutela dei loro diritti elementari, come quello di avere stabile dimora presso la madre nell’ICAM o di avere stabile dimora presso il padre, e poter seguire l’asilo o la scuola dell’infanzia in un posto o in un altro. Come la Gabbianella ha ripetuto più volte nella sua storia, anche in relazione all’affidamento, i bambini non sono pacchi postali. Essi hanno diritto alla relazione con entrambi i genitori e l’Associazione ha svolto più volte nel tempo un servizio di accompagnamento al genitore lontano e avrebbe continuato a farlo.
Ciò che non può più fare volentieri è invece un’attività in cui manca un elemento fondamentale per avere un rapporto di fiducia vero con le madri: il rapporto di collaborazione con il carcere stesso e l’UIEPE. In realtà ogni giorno si è dialogato negli anni con il carcere per questioni organizzative, ma, non appena si deve chiedere ad una madre di impegnarsi nel sostenere un’attività proposta per il figlio, l’Associazione si trova sola. Le detenute (che nella maggior parte dei casi sono Rom o Sinti) hanno molto bisogno di vedere che gli educatori, gli assistenti sociali, coloro che accompagnano all’esterno i loro bambini, le autorità sanitarie hanno lo stesso indirizzo in relazione alle cose da farsi per i bambini. Eppure dei progetti importanti per la scuola o le vacanze, per le visite in famiglia o altro non sono mai stati fatti insieme da tutti questi soggetti, giungendo ad un accordo scritto, capace di responsabilizzare le mamme e le famiglie dei bambini in genere. In realtà alle madri detenute non viene chiesto di fare progetti e patti scritti per i figli. Certo, le madri che non sono in carcere non li fanno, e la detenzione non attenua la potestà genitoriale, ma questo discorso, pur vero, deve essere declinato nel senso del rispetto dei diritti dei bambini che, innocenti e piccoli, vengono portati a vivere in un istituto di pena. Questo “piccolo particolare” li rende più bisognosi di cure, perché possano avere i diritti che hanno tutti gli altri bambini.