carlaPubblichiamo qui di seguito l’intervento di Carla Forcolin all’audizione parlamentare sui temi dell’affido e dell’adozione, tenutasi a Palazzo Montecitorio l’ 11 aprile scorso.

Nella graduatoria mondiale dei paesi adottanti, l’Italia è il II paese del mondo, subito dopo gli Stati Uniti, paese ben più grande e ricco di noi. Anche se i bambini adottati dall’estero nel 2000 erano 3.150 e nel 2014 erano 2.200:  il loro numero va calando. Siamo anche ai primi posti per longevità e denatalità  e questo spiega il desiderio di genitorialità che ci caratterizza. Eppure nel rapporto del Centro studi Nazionale dell’Istituto degli Innocenti sugli affidamenti familiari e sui collocamenti in comunità (quaderno n. 26 della collana del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) al 31/12/2011 risulta che i minori fuori famiglia d’origine erano 29.388, di cui 14.397 in affido e 14.991 nei servizi residenziali.

I dati sui minori accolti in affido evidenziano che questa esperienza riguarda di più l’età adolescenziale che quella infantile e che l’incidenza dei minori stranieri è cresciuta al punto da rappresentare il 17% del totale. Nei servizi residenziali un minore su tre è di cittadinanza straniera a causa dell’ingresso massiccio in essi dei minori stranieri non accompagnati.

Anche escludendo questi minori, la cui situazione merita ragionamenti a parte, è evidente che i minori fuori famiglia d’origine, non in affidamento e non minori stranieri  sono circa 10.000, a fronte di un altro esercito di coppie,  che va esso pure assottigliandosi, disponibile ad adottare (nel 2001 erano 25.000 coppie circa; 2006 erano 17.000 coppie; nel 2010 erano 11.000) di pari entità.

E’ evidente che bisogni e risorse non riescono ad incontrarsi.

Non tutti i minori fuori famiglia intanto sono adottabili. Perché lo diventino ci vuole la dichiarazione di adottabilità. Secondo la banca dati dei minori adottabili e degli adulti disponibili, finalmente avviata il 15/2/2013, con decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 47 del 25/2/2013,  i minori realmente adottabili erano 2.300. Molto meno di coloro che vivono nei servizi residenziali.  Si tratta  probabilmente di ragazzini grandi, portatori di disabilità, nevrotici o borderline a causa di  infanzie difficilissime e di deprivazioni varie. Ragazzini che ben pochi vogliono accogliere, ma per cui una famiglia, con accurate ricerche, si potrebbe forse trovare.

Se togliamo dal numero dei minori fuori famiglia, gli adottabili, secondo questa fantomatica banca-dati, ne resta la maggioranza. Bisognerebbe capire bene perché per un numero tanto elevato di minori la dichiarazione di adottabilità non viene fatta e anche perché tra le circa 10.000 coppie che sicuramente sono disponibili all’adozione nazionale non si riescono a trovare dei genitori per tutti i minori che sono stati dichiarati adottabili.

I bambini (non gli adolescenti) dichiarati adottabili anno per anno, trovano di contro famiglia rapidamente.

Allora il punto debole del nostro sistema è la dichiarazione di adottabilità, che non viene fatta per preservare il rapporto dei minori con i genitori naturali, anche nei casi in cui questi non esercitano la  potestà genitoriale e, se i ragazzini sono in affidamento, per l’esistenza di significativi legami tra di essi e la famiglia affidataria. 

Mi chiedo se queste motivazioni siano sufficienti per condannare migliaia di minorenni alla privazione di un diritto elementare, quale quello di crescere in famiglia. Diritto che costituisce una necessaria ed elementare base per essere sereni nella vita e per inserirsi nel mondo attraverso un lavoro, a cui si accede dopo essere stati educati ed istruiti.

E’ evidente che i giudici che hanno il compito di dichiarare adottabile un minore con genitori vivi (e  di solito i genitori vivi e noti sono presenti nel 70% dei casi) si trovano davanti ad una scelta difficile. Devono essere sicuri che il minore sia privo di assistenza morale e materiale prima di dichiararlo adottabile. Tale assenza di cure si nota in relazione al mantenimento, all’istruzione, alla cura della salute del bambino, ecc. e le cause di questa privazione devono essere di carattere non transitorio, ma permanente. E’ questo un punto cruciale: quando si decide che lo stato è permanente? Di solito talmente tardi da fare in modo che il minore ormai sia adolescente e difficilmente inseribile in altre famiglie.

Si nota questa realtà anche studiando gli affidamenti, dove un termine temporale esiste ed è costituito dai due anni: nel 60% dei casi, questo tempo viene superato e di fatto una risoluzione poco accettabile della situazione dei minori in affidamento è quella per cui essi rimangono nella famiglia affidataria fino al compimento dei 18 anni ed oltre, senza però essere ufficialmente figli di quella famiglia. Non si creda che per quei ragazzini e per quelle famiglie, al di là di felici eccezioni, la vita sia facile e sempre sicura. Se nell’adolescenza si creano crisi, nessuno può garantire che i ragazzi non siano rifiutati e/o che essi stessi non vogliano rifiutare dei genitori che li controllano, anche amorevolmente, in un periodo di vita in cui tutto si vorrebbe provare ed esplorare.

Oggi la legge sull’affidamento è appena stata riformata con la legge n. 173/2015, in base alla quale il minore ha diritto alla continuità degli affetti. E’ questa una riforma per cui l’associazione “ La gabbianella” ha molto lavorato, lanciando due petizioni e per cui io ho scritto un libro dl titolo significativo: “Io non posso proteggerti”. E’ una riforma passata con la quasi unanimità del Parlamento e in base alla quale il minore non è più un oggetto di proprietà che può essere spostato di famiglia in famiglia senza che si consideri il suo mondo interiore, ma diviene persona, con affetti, sentimenti, volontà personale.

Il minore ha diritto a vivere definitivamente nella famiglia affidataria se la sua famiglia non può accoglierlo e nella famiglia affidataria sta bene. Nulla è però automatico: l’affidamento non è l’anticamera dell’adozione. Per l’adozione, ci vuole appunto una dichiarazione di adottabilità e ci vuole la valutazione della positività dei rapporti creatisi nella famiglia affidataria. Inoltre, non secondaria, ci vuole la determinazione della famiglia affidataria di trasformare il proprio progetto iniziale, temporaneo, di accoglienza, in progetto definitivo.

Viene da pensare che le indicazioni della L. 173/2015 siano la strada da percorrere: garantire la continuità degli affetti e la solidità di vita per tutti coloro per cui ci si riesce. Proviamo a pensare, a titolo di esempio, ad un bimbetto preso in carico dai Servizi Sociali dopo la scoperta che i suoi genitori sono tossicodipendenti. Può essere posto in comunità o in affidamento. Oggi spessissimo è messo in casa-famiglia o in comunità anche se è molto piccolo e quindi più bisognoso di cure materne, perché non si vuole che egli si affezioni ad una famiglia affidataria (e viceversa). C’è la logica secondo cui, finché non si sa di chi sarà il bambino, lo si deve tenere “sospeso”. I tempi sono sempre lunghissimi, i bambini crescono, crescono male, diventano adolescenti impossibili e non sono più in grado di vivere in famiglia, di accettarne il clima intimo e le cure personalizzate. Appena un bambino piccolo diventa solo e non può più vivere nella sua famiglia, si deve provvedere a dargli una famiglia provvisoria, come dice chiaramente la L. 149/01, con l’accuratezza però di pensare prima se la stessa, in caso di bisogno, potrebbe diventare definitiva. A mio avviso, bisognerebbe trovare e sistemare nella banca dati, un elenco di famiglie disponibili a situazioni di incertezza sul futuro dei bambini. Non solo per l’adozione a rischio giuridico, ma anche per l’affidamento dal futuro incerto. Famiglie così disponibili da essere disposte a tenere con sé per sempre o lasciar tornare nella famiglia d’origine il proprio protetto.

Solo che l’incertezza non deve essere eterna. I due anni previsti per l’affidamento sono un tempo congruo. Tanto più che in questa rivoluzione ideale dell’adozione, in cui si supera il concetto di proprietà privata del figlio, che appartiene in primis a se stesso e poi a chi lo ama, si stabilisce che i legami positivi con la famiglia d’origine del bambino possono essere mantenuti, così come vanno mantenuti i legami con la famiglia affidataria. Diverso è il senso dell’appartenenza…

Insomma: basta con l’adozione vissuta come seconda nascita e quindi come l’uccisione del bambino che c’era già, ma avvio all’adozione come sostegno affettuoso che accetta il bambino con la sua storia precedente.  Un’adozione che aggiunge stabilità e cure, non toglie e recide, come vorrebbero alcuni genitori adottivi molto poco amorevoli.  E’ chiaro che se entriamo in questa logica ogni adozione di bambini con una famiglia disastrata alle spalle diventa una situazione in cui devono entrare dei professionisti (psicoterapeuti infantili) per impostare i rapporti tra i bambini e i loro cari.  Ed è chiaro che si devono ascoltare in profondità i bambini e seguire le famiglie adottive e anche d’origine.

La famiglia adottiva non accoglie più il bambino esclusivamente per sé stessa ed in sé, ma lo accoglie assieme al suo mondo e per farlo crescere bene, per farne sviluppare “i talenti”, le potenzialità.  La famiglia adottiva viene ad assomigliare di più alla famiglia affidataria, e questo potrebbe far diminuire il numero delle famiglie adottive, ma si tratta di spiegare bene le cose agli aspiranti genitori, si tratta di farli ragionare sul senso dell’adozione fatta “nel superiore interesse del minore” e sulle loro effettive forze. Si potrebbero creare liste di genitori disponibili solo ad adottare bambini abbandonati alla nascita (circa il 30%), liste di persone disposte ad adottare in casi come quelli da me ora descritti (a rischio più o meno grande di diventare da genitori dei semplici zii) e liste di affidatari, distinguendo anche qui tra coloro che si sentono affidatari solo per brevi periodi e coloro che invece non disdegnano i lungi periodi e l’eventuale adozione.

Bisogna formare le persone, spiegando loro in quale realtà il nostro paese si trova. Spiegando loro che, se vogliono dare una famiglia ad un bambino, devono partire dall’idea di fare il suo bene.

E’ chiaro che tale adozione è diversa dalla semplice sostituzione della genitorialità naturale, come si crede da parte di persone che non sanno come funzionano le cose.

Ed è chiaro anche che genitori siffatti non sono poi così tanti. Non si può chiedere un’ oblatività così alta a tante persone. La gente desidera adottare un bambino piccolo e sano per crescerlo ed educarlo facilmente; questo non è condannabile: è naturale. E la gente desidera un bambino da crescere senza che i Servizi Sociali decidano loro che cosa si deve fare del bambino. Già le suocere sono antipatiche per definizione, figuriamoci gli estranei sapienti come gli assistenti sociali! Eppure ci vuole una sinergia di forze per crescere dei bambini che hanno subito un abbandono o che sono stati maltrattati nella prima infanzia o addirittura per lunghi anni.

In questa logica, esattamente come per gli affidamenti, dove gli aspiranti affidatari sono pochi rispetto ai bisogni, non vanno esclusi dall’adozione adulti che non abbiamo i requisiti di cui all’art. 6, cioè che non siano sposati. La capacità di crescere ed educare diviene più importante del dato del matrimonio.

Se le coppie sono sposate, ciò significa che si assumono delle responsabilità circa il loro legame di coppia davanti alla società e si sentono solidi, ma talora ciò che essi sentono non corrisponde al vero, a giudicare dal gran numero di divorzi. Spesso coppie di fatto non sposate sono altresì solidissime ed ancora ci sono singole persone che potrebbero benissimo adempiere a compiti genitoriali, a prescindere dal loro orientamento sessuale, anche se a me questa discussione, che tanto ha coinvolto i media, sembra del tutto secondaria rispetto ai temi riguardanti l’adottabilità e il coniugare sicurezza e continuità degli affetti nei minori.

A questo proposito non posso che ricordare che i single vanno bene per l’affidamento e per l’adozione in casi particolari, perfino per adottare bambini/e con disabilità. La sottoscritta ne ha avuti in un felice affidamento, a 53 anni, vivendo da sola, due (erano gemelli di tre anni provenienti dal carcere), ma non può adottare. E’ evidente l’aspetto ideologico che sottende questo divieto, così sentito negli ambienti cattolici da fare in modo che perfino la legge n. 173 sia passata solo a costo di ribadire che il diritto alla continuità degli affetti nell’eventuale passaggio dall’affido all’adozione vale solo per i bambini presi in affidamento da coppie sposate. Per gli altri vale solo nel senso che  potranno essere mantenuti i rapporti con l’affidatario/a o nel senso che i bambini potranno essere adottati nei casi particolari, ad esclusione dell’art. 44 lett. a),  visto che lo stesso implica che l’adozione “in seguito a rapporto stabile e duraturo precedente la dichiarazione di adottabilità ivi compreso l’affidamento”,  vale solo per i bambini orfani di padre e di madre. Gli orfani di padre e di madre non ci sono quasi più, c’erano nel 1967, quando fu fatto l’impianto della legge 184, approvata poi nell’anno 1983,  e la dicitura “Orfani di padre e di madre” è stata mantenuta solo per impedire l’adozione ai single. Mi viene da dire in modo “cattivo” e lo dico in riferimento a storie che ho raccolto nel corso della vita e che ho vissuto in prima persona, dove tra bambini ed affidataria single c’erano tenerissimi rapporti, poi interrotti per avviare l’adozione ad una coppia, creando grande dolore inutile. V. Caso “Gabbianello Marco”, storia di Cassandra, ecc).

Anche perché i matrimoni continuano a calare e il divorzio si ottiene con grande facilità (L. 55 del 2015).  Il matrimonio poi non è la garanzia della eterosessualità e non è la garanzia dell’onestà morale e del rifiuto di qualsiasi forma di pedofilia. Magari lo fosse! Sappiamo che ci sono pedofili che si annidano nelle migliori famiglie e perfino nelle gerarchie ecclesiastiche. Le coppie e le persone vanno valutate attentamente una ad una.

Carla Forcolin

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