Due giorni fa al carcere maschile, un giorno dopo la visita del Patriarca: un bambino di colore di circa 4 anni rideva di gusto tutte le volte che sulla scena compariva il pupazzo del pappagallo. Elvis, più grandicello, rideva invece alle battute comiche che punteggiavano lo spettacolo di burattini. Una bimba cicciottella chiedeva: “Anche il mio papà ha fatto questo?” (riferendosi allo spettacolo). Le madri sorridevano. Questo era il clima che si respirava a S. Maria Maggiore durante lo spettacolo di burattini messo in scena da un gruppo di padri detenuti, che avevano partecipato al progetto “Essere padri in carcere”, finanziato dalla Coop Adriatica, per i loro bambini e per le altre famiglie che, con i loro figli, andavano a trovare papà prima di Natale.
Ma ecco che alla fine della storia inventata dai padri e trasformata in copione, i pupazzi/burattini dei vari personaggi che ogni padre voleva dare al figlio non si sono potuti regalare: infatti, su richiesta dell’educatore, che voleva estendere il divertimento a tutti i bambini presenti nei due turni di colloquio, sembrava che lo spettacolo, in modo del tutto imprevisto per noi, si dovesse rifare. Ma senza burattini non si fa teatro dei burattini… I padri/attori hanno rimandato il momento in cui avrebbero dato ai propri figli i pupazzi costruiti da loro. Lo hanno fatto con grande dispiacere, perché era quello il momento giusto per dare il burattino che rappresentava tutto il loro affetto nel pensare e inscenare la storia. Inoltre, i padri attori hanno avuto il tempo per il colloquio pre -natalizio decurtato dalla necessità di liberare la piccola stanza colloqui, per lasciare posto ad altri che dovevano entrare. Questo secondo sacrificio è costato ad alcuni, che si erano seriamente impegnati nel progetto teatro, con l’associazione “La gabbianella, ancora di più. Un momento di festa, preparato con tanta cura e tanto amore, è stato parzialmente rovinato.
Non è la prima volta che succede una cosa simile e la causa strutturale della difficoltà a riunire padri e figli in un numero superiore a quello dei tavolini fissati al pavimento, presenti in sala colloqui, è sicuramente l’inadeguatezza della sala stessa. Mentre in quasi tutti gli istituti di pena italiani si predispongono spazi adeguati ad accogliere i bambini, figli dei detenuti, in modo che almeno gli spazi non siano avvilenti e tristi, nella nostra città, manca un luogo dove si possano accogliere questi bambini e farli giocare, almeno un’ora ogni tanto con il padre.
La prima volta in cui sono entrata in carcere, la Direttrice mi ha presentato il problema della sistemazione del chiostro per accogliervi i parenti dei detenuti nella stagione estiva e forse con qualche accorgimento anche in quella invernale. Devo dire che ho promesso che avrei cercato un finanziamento per sistemarlo e un architetto che se ne prendesse cura. Due architetti hanno disegnato il cortile, ma il finanziatore non si è ancora presentato.
Non passa giorno senza che notizie di grande sofferenza trapelino da S. Maria Maggiore, i detenuti compiono atti di autolesionismo per attirare l’attenzione su di sé e un gruppo di agenti poco tempo fa ha scritto su questo giornale per esprimere il proprio disagio. In quel testo, che di certo non rappresentava tutto il personale che lavora nella Casa Circondariale, sembrava che gli uomini si dividessero in due categorie: quella di chi sta “dentro”, i cattivi, e quella di “chi sta fuori”, i buoni. Nelle difficoltà che ci sono nel carcere, i detenuti non sono più persone che hanno sbagliato e che dovrebbero essere messe nelle condizioni di non sbagliare più, ma una sorta di sottospecie umana. In realtà, ci sono due vie maestre per recuperare coloro che hanno commesso dei reati: metterli in condizione di lavorare e rinsaldare i loro legami d’affetto.
Se si permettesse ai detenuti di lavorare all’interno del carcere per renderlo più adeguato ad accogliere i bambini, si potrebbero ottenere le due cose insieme. Ma ci vogliono progetti condivisi, con la Direzione e il Ministero di Giustizia, ci vogliono fondi per pagare i materiali e dei bravi professionisti che seguano a tempo pieno i lavori.
E’ impresa difficile, ma non impossibile: continuo a sperare che il Ministero di Giustizia e un mecenate o un gruppo di mecenati vogliano aderirvi. In fondo, avviati i lavori, ci si potrebbe avvalere di mano d’opera che si presta con gioia a lavorare gratis, o quasi.
Carla Forcolin