Il calo costante delle nascite dovrebbe portarci a cercare almeno di prenderci cura dei fattori che, con evidenza, lo determinano, come l’impossibilità per i giovani di “fare famiglia” e, perfino, di sistemarsi definitivamente nell’Italia che li ha formati, per mettere al modo dei bambini. Ma il calo delle nascite ci dovrebbe indurre anche a prenderci maggiormente cura dei bambini e dei giovanissimi che ci sono già nel nostro paese.

In realtà i bambini che non hanno una famiglia d’origine in grado di crescerli, per un arco di tempo contenuto e determinato da qualche problema superabile, trovano sempre meno accoglienza in altre famiglie affidatarie. L’Italia è tra i paesi europei con Servizi Sociali che sottraggono meno i bambini alle famiglie, anche quando toglierli dai genitori naturali significa solo proteggerli da adulti tossicodipendenti, squilibrati, incapaci di dare loro cure genitoriali.

Le famiglie disponibili all’affidamento sono poche, si ripete in continuazione, ma com’è possibile che le stesse siano concentrate solo in alcuni territori? I Piemontesi da soli accolgono più del 19% dei minorenni che sono in affidamento in Italia, seguiti dalla Lombardia, Emilia Romagna e Veneto (7%). Le regioni più ricche, e meglio organizzate, con specifiche banche dati, fanno più affidamenti. Ed infatti l’affidamento è un istituto che ha bisogno di disponibilità nelle istituzioni e nelle famiglie.

Nelle famiglie ci vogliono il desiderio e l’energia necessaria. Un’energia fatta di tempo, cultura, disponibilità finanziaria (non è vero che l’affidamento fa guadagnare!), giovane età. Negli ultimi dieci anni le famiglie affidatarie sono diminuite, quest’energia manca, ma manca anche una buona considerazione dell’affidamento, come istituto oblativo per eccellenza. E’ questa la conseguenza della scellerata campagna di stampa che ha gettato fango su coloro che cercavano di attuarlo. E poco importa che tutti gli accusati siano stati assolti con formula piena.

L’affidamento non piace a chi ritiene che la legge del sangue sia l’unica “naturale”, a chi ritiene ad esempio, che sia “normale”, quasi un dato genetico, che i figli dei detenuti compiano più reati degli altri ragazzi, che i figli di chi si droga si droghino. Non piace l’atteggiamento per cui lo stato interviene e cerca di dare un’educazione diversa da quella della famiglia ai bambini. Sono note le enormi difficoltà incontrate dai magistrati che, perfino su sollecitazione delle madri, hanno allontanato dalle famiglie i figli dei mafiosi. Meno noto è che l’affidamento solo diurno, che darebbe ai figli delle detenute, che portano i bambini con sé, una vita quasi normale, non sia nemmeno considerato da chi almeno potrebbe proporlo alle madri recluse. Eppure esso darebbe ai bambini una libertà e un’educazione che oggi non hanno, senza toglierli dalla madre, con cui continuerebbero a dormire e a trascorrere gran parte del loro tempo, compresi i periodi di malattia.

E’ noto che i primi anni di vita per i bambini sono quelli più preziosi e che solo l’ambiente familiare è in grado di esprimere l’intensità di affetti che è l’humus su cui si innesta la crescita armoniosa di una persona, ma solo il 3,8% dei bambini posti in affidamento ha meno di due anni e il 9% è tra i tre e i cinque anni: i piccolissimi non trovano famiglia o non vengono volutamente posti in famiglia. Di certo perché sono più impegnativi, ma anche perché si teme che gli affidamenti divengano adozioni, senza che lo si sia scelto prima. Così in affidamento ci sono soprattutto ragazzi preadolescenti e adolescenti, spesso già resi “difficili” dalla vita. Ragazzi che poi, appunto, ritroviamo nei circuiti penali.

Bisogna prendersi più cura dell’infanzia, rivalutare l’affidamento, dare voce ai ragazzi cresciuti bene attraverso questo istituto, sostenere le famiglie che decidono di aprirsi agli altri. Farlo è per lo stato un investimento economico importante.

Carla Forcolin (fondatrice APS “La gabbianella e altri animali”, ex affidataria, autrice di “L’adozione sta cambiando”, F. Angeli 2024)

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