Per 16 anni l’associazione “La gabbianella” , di cui ero la presidnte, ha fatto volontariato quotidiano accompagnando i figli delle detenute del carcere femminile della Giudecca all’asilo nido (prima della legge 63/11) e alla scuola materna (dopo che fu deciso che dovevano rimanere con la madre fino a sei anni). Con questo credo di avere dimostrato che a quei bambini tenevamo/tengo davvero, eppure, ogni qual volta affermo che le case famiglia “protette” non risolveranno davvero la situazione per cui alcuni piccoli crescono in carcere, mi si fa passare per una nemica di madri e figli. O per una reazionaria stravagante. Io credo che la gente non voglia capire i veri problemi di questi bambini e delle loro madri. Credo che giornalisti e politici semplicemente non vogliano che pesi sulla coscienza di tutti la permanenza dei bambini negli istituti di pena. “Fuori i bambini dal carcere” è un ottimo slogan, ma … intanto, proprio quel filone di pensiero che sembra voler risolvere il problema costruendo case-famiglia in tutta Italia, ha finito per raddoppiare il tempo di questa immorale detenzione, portandola dai tre ai sei anni e inventando gli ICAM. Infatti, in teoria ci sono già oggi, al posto del carcere, gli “Istituti a custodia attenuata per madri”, ma essi si sono rivelati prigioni camuffate e i bambini, che non sono scemi, ben lo capiscono.
Anche nel 2011 si disse “Mai più bambini in carcere” e il risultato di quella riforma lo abbiamo sotto gli occhi. Oggi i bambini non sono più staccati dalle madri a tre anni, ma a sei e gli si ruba tutta la prima infanzia: è un vantaggio per loro? Vivere fuori e andare a trovare la madre regolarmente, non sarebbe stato meglio? Da molti anni sostengo che gli Icam sono un carcere camuffato, oggi se ne sono accorti tutti. Ecco allora il tentativo di salvare ad un tempo la vicinanza del bambino con la madre e la sua libertà con le case protette. Ma anche qui, se le case famiglia sono “protette”, le madri, su cui pesa il sospetto di poter tentare la fuga, non saranno libere e di conseguenza non lo saranno nemmeno i bambini. Altro carcere camuffato. Se si prende atto di questa realtà, almeno si possono cercare soluzioni perché la detenzione materna, in qualsiasi modo sia realizzata, non pesi sui piccoli (ad esempio l’obbligo di farli andare all’asilo nido e alla scuola materna con accompagnatori pagati dallo Stato e non mandati dal fragile volontariato).
Se invece dalle case-famiglia protette le madri possono uscire, allora la grande attenzione dello stato deve andare non tanto nel tenerle in un istituto (gli istituti raramente responsabilizzano i loro ospiti) ma nel preparare il loro futuro. Vanno previsti modi per condurle all’autonomia. Per questo, più che case famiglia protette, dove si creerebbe anche il serio problema dell’isolamento per le donne e i loro figli, io immagino strutture educative già esistenti, con delle cure individualizzate e un accompagnamento ad una vita nuova: formazione umana e professionale e poi un lavoro, una casa, la scuola per i bambini. In poche città, tra queste Lauro, dove ci sono tante mamme in carcere, le case famiglia protette, in sostituzione dell’Icam, possono servire, ma più che sui luoghi da costruirsi bisogna mettere l’accento sulle cure individualizzate da dare. Se non si gettano tutti i denari, che erano stati stanziati per le case famiglia nella precedente legislatura, ce la si può fare. Poche case famiglia e tanto recupero, attuato nei vari modi possibili.
Carla Forcolin (autrice di “Uscire dal carcere a sei anni”, F. Angeli editore)