In questo periodo in cui si parla tanto dei bambini che crescono nei nidi e negli Icam delle carceri femminili italiane, non dovremmo dimenticarci che si tratta di bambini come gli altri, con gli stessi bisogni e gli stessi diritti.
La legge 184/83, al titolo primo afferma: “ Il minore ha diritto di essere educato nell’ambito della propria famiglia” e successivamente: “Il minore, che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidata ad un’altra famiglia, possibilmente con figli minori … (omissis) al fine di assicurargli il mantenimento, l’educazione e l’istruzione”. I bambini che hanno solo la madre, se la stessa commette un reato, la seguono generalmente in carcere o in Icam. Qui, allo stato attuale delle cose, possono restare fino a sei anni. Fino all’attuazione della legge 62/11 ci stavano fino a tre. Questa riforma, che ai bambini ruba tutta la prima infanzia, è nata dal desiderio di non separarli dalle madri. Il dolore della separazione era evidente, quello del rimanere in carcere fino a sei anni non lo era altrettanto. Eppure, trascorrere tutta la prima infanzia “tra mura intrise di dolore”, come io stessa ho definito l’ambiente carcerario nel libro “Uscire dal carcere a sei anni” F. Angeli editore, rischia di essere un handicap per la vita.
Allora, da più parti si leva il grido: ricorriamo alle case famiglia protette. Non c’è chiarezza sulla natura di questi luoghi: se da essi i bambini possono uscire con le madri, ad esempio per essere accompagnati a scuola o dal medico, sono diversi dal carcere strutturalmente. Se da essi però le madri non possono uscire con i bambini, rimangono carcere, non molto diverso dagli Icam.
Il grado di attenuazione della pena per le madri lo stabiliscono i giudici e non basta che una donna sia madre perché abbia l’impunità, com’è ovvio. Quindi il problema dei bambini, che o vengono privati della madre o della libertà sussiste, anche se si costruiscono le case-famiglia protette.
Dopo avere trascorso a contatto con i bambini del nido e dell’Icam di Venezia 16 anni circa, l’associazione “La gabbianella” è giunta a conclusioni diverse da altre associazioni, forse perché ognuno vede le cose a seconda del proprio angolo di visuale. I bambini hanno bisogno di stare in carcere o in ambienti similari il meno possibile: ne escano quindi al più tardi a tre anni, con la madre, se è possibile e, se possibile non è, andando da parenti o in affidamento etero familiare. Un affidamento che si dovrebbe preparare per renderlo consensuale, quasi amichevole. Da parte degli affidatari, crescere il bambino di un’altra donna, dovrebbe essere quasi un “diventare parenti”. I bambini, trovando negli affidatari delle persone attente ai loro bisogni e affettuose, non mancheranno di adattarsi alla situazione. Capiranno poi, vedendo la madre nei colloqui, regolari e frequenti, che la stessa sta aspettando di ricongiungersi a loro, che non è “perduta”. Ed intanto, in ambienti liberi, stimolanti, affettuosi potranno rinforzarsi e crescere in modo tale da inserirsi nella scuola, premessa per un futuro inserimento nella società.
L’associazione “La gabbianella” è arrivata in carcere per caso, occupandosi di affidamento, e vi ha portato la logica degli affidatari, volta a far stare bene dei bambini “temporaneamente privi di un ambiente familiare idoneo”. Non è la logica di chi si vuole appropriare dei bambini degli altri, è una logica oblativa, volta ad aiutare sia i bambini che i loro genitori in un momento difficile, perché si possano riunire quando saranno entrambi più forti.
Non è un caso che proprio questa associazione sia stata propugnatrice della legge 173/2015, circa il diritto alla continuità degli affetti per i bambini in affidamento. Continuità degli affetti con i propri genitori, in primis, con chi “ne fa le veci” come si diceva un tempo, successivamente. Diritto a volere bene a chi te ne vuole, come succede agli adulti, senza che le gelosie di alcuni lo impediscano.
La Gabbianella è per il diritto a crescere in famiglia, non per le case-famiglia. Tutto però con buon senso: se in un territorio ci fosse davvero bisogno di una casa famiglia, va bene anche questa, ma con oculatezza e reale studio dei bisogni. Un Icam costruito per niente in Sardegna, mai utilizzato, dovrebbe esserci di monito: non si spreca il pubblico denaro. Anche e soprattutto perché i 30/50 bambini all’anno che dovrebbero avvalersi delle strutture create per loro, avranno un enorme bisogno di sostegno economico non appena le madri usciranno dal carcere e cercheranno l’autonomia.
Chi rimane in contatto con gli ex detenuti sa benissimo quanto essi fatichino a trovare lavoro, casa, normalità di vita; quanto degli aiuti economici, anche dell’ordine di poche migliaia di euro potrebbero talora appianare crisi difficili, provocate da una malattia, da un incidente, da qualche imprevisto. I bambini dovrebbero essere sempre monitorati perché vadano a scuola e frequentino ambienti idonei al loro sviluppo. Viene da pensare che i Servizi Sociali dovrebbero avere per loro un occhio di riguardo, ma in realtà madri e padri temono i Servizi Sociali e quindi sarebbe proprio il caso che fosse il volontariato a seguire in modo discreto questi bambini e queste famiglie. E che il volontariato fosse sostenuto in tale direzione.